Quella sentenza che fa storia (via Rasella, anni 65 dall’esplosione)

 

La storia della
resistenza italiana in questi anni è stata oggetto di riletture romanzesche e
giornalistiche. Con ottimi risultati in termini di vendite e attenzione
pubblica. Eppure capita che, portata in tribunale, divenuta oggetto se non
addirittura motivo di un processo, questa stessa storia sia taciuta.

 

La sentenza 16916/2009 della Cassazione. – Martedì 21 luglio è stata depositata presso la cancelleria della
Cassazione la sentenza
n. 16916
, sul procedimento per diffamazione a mezzo stampa intentato da
Elena Bentivegna, figlia di Rosario e di Carla Capponi (membri dei
Gruppi di Azione
Patriottica
e noti in quanto partecipanti all’attentato di via Rasella),
contro il quotidiano romano Il Tempo.

I giudici,
ribaltando la sentenza della Corte d’Appello di Roma del 2004, hanno condannato
la società editrice al pagamento dei danni morali e delle spese, per aver
offeso onore e dignità dei due partigiani per mezzo di due titoli: “La
cassazione dà la patente di eroi ai massacratori di via Rasella” (unico titolo
comparso alla pagina 1 dell’edizione cartacea del quotidiano) e “La cassazione
dà la patente di eroi ai massacratori di civili in via Rasella” (comparso a
pagina 15, a otto colonne).

Sopra ogni cosa, è
interessante analizzare le motivazioni della decisione.

 

Il “massacro” di via Rasella.
C’è una storia che ci è stata raccontata, o fatta studiare (a dir la verità,
non molto approfonditamente), e che si può sintetizzare così. Già dall’agosto
1943 Roma era stata dichiarata dal governo Badoglio “città aperta”, status che
gli Alleati non avevano riconosciuto. D’altro canto, il 10 settembre 1943
l’esercito tedesco, sotto la guida dal generale Kesselring, dopo aver disarmato
la polizia italiana si era impadronito di fatto della città, sebbene
nell’accordo questa fosse stata posta sotto il governo nominale della
Repubblica Sociale Italiana. Ad ottobre il governo Badoglio assumeva lo stato
di “belligerante”, contro l’esercito tedesco ormai a tutti gli effetti
“occupante”. Dal gennaio del 1944, a seguito dello sbarco ad Anzio, tutta la
provincia di Roma diviene “zona di operazioni”; il controllo dell’ordine a Roma
viene affidato alla Gestapo, a capo della quale Kesselring nomina l’ufficiale
Herbert Kappler, già tristemente noto per la deportazione di più di mille ebrei
romani. Lo stesso Kappler organizzerà in quel periodo la repressione della
resistenza romana, in particolare presso il carcere di via Tasso.

In questo clima, il
23 marzo 1944 si celebra il 25° anniversario della fondazione dei Fasci
Italiani di Combattimento. La prevista adunata (in piazza Cavour) viene
annullata dal comando tedesco, che già dal 10 marzo (a seguito di un attentato)
aveva vietato ai fascisti repubblicani di svolgere manifestazioni pubbliche.
Nei giorni precedenti, i partigiani notano che una compagnia tedesca compie un
percorso prestabilito, da Porta del Popolo al Viminale (quartier generale
tedesco). Si tratta dell’11esima compagnia del III battaglione dell’SS Polizei
Regiment Bozen, di 156 uomini altoatesini e sudtirolesi arruolati volontari
dopo l’occupazione tedesca delle province di Trento, Bolzano e Belluno.

Non senza
discussioni e resistenze, i GAP decisero di organizzare un attacco. Il 23 marzo
dunque Rosario Bentivegna attende la compagnia su via Rasella: al segnale
dell’arrivo dei tedeschi, fa esplodere un carretto; poco dopo, Franco
Calamandrei e Carlo Salinari lanciano bombe a mano e fanno fuoco sui
sopravvissuti (nell’azione sono coinvolti direttamente nove gappisti, tra cui
Carla Capponi, compagna di Bentivegna; altri hanno il compito di coprire la
fuga).

32 militari
tedeschi muoiono nell’immediatezza, uno poco dopo il ricovero. Si contano
inoltre due vittime civili. La conseguenza sarà la rappresaglia: l’eccidio delle Fosse
Ardeatine
, 335 vittime innocenti, dieci per ogni tedesco morto (al momento
33, ma nei giorni successivi ne sarebbero morti altri 9).

 

La prima sentenza “storica” della Cassazione. – Alla fine degli anni ’90, i parenti delle vittime civili
dell’attacco di via Rasella denunciano penalmente Rosario Bentivegna, Carla
Capponi e Pasquale Balsamo, tre dei gappisti impegnati nell’azione. Il giudice
delle indagini preliminari di Roma dispone l’archiviazione del procedimento per
l’amnistia su tutti i reati commessi per motivi di guerra decisa con decreto 5
aprile 1944, pur tuttavia ravvisa tutti gli estremi del reato di strage. Gli ex
partigiani decidono perciò di ricorrere in Cassazione: la sentenza
1560/1999
dà loro ragione, ribadendo la natura di legittimo atto di guerra
dell’attacco di via Rasella poiché operazione
compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti
nel periodo dell’occupazione fascista
(come stabilito nel decreto 194/1945
che escludeva la natura di reato di una serie di azioni di resistenza). Una
sentenza storica, o forse “storiografica”.

E’ proprio questa a
finire nel ciclone della reazione dei redattori (e dei titolisti) del
quotidiano Il Tempo. Che se la prendono con la Cassazione, ma soprattutto con i
massacratori di via Rasella: nel
titolo a pagina 15 si arriva a chiamare gli appartenenti alle SS vittime civili, e nell’articolo sottostante si
legge che “coloro che non perdettero la
testa furono le S.S.
”.

Il 7 agosto 2007 la
Cassazione civile avrebbe confermato una prima condanna per diffamazione ai
danni di Rosario Bentivegna, contro il quotidiano Il Giornale.

 

La storiografia e la legge.
Decidiamo oggi di tralasciare l’analisi dei giudizi della storiografia e della
politica sulla vicenda di via Rasella. Non perché ininfluenti, ma per la loro
stessa natura e funzione. Non si può impedire a chicchessia di documentarsi
(prima) ed esporre teorie (poi). Né si può impedire alla politica di offrire
interpretazioni storiche, per loro natura di parte. La libertà di espressione è
diritto sacrosanto.

Quello che ci si
chiede è fin dove le critiche (ad una storia, o ad un individuo) possano
spingersi. Meglio: fino a che punto chiunque
possa accusare di reati altri cittadini, in particolare nell’ambito di un
giudizio storico.

Un manuale di
storia o una monografia non hanno la diffusione né l’immediatezza di un
quotidiano nazionale di media tiratura come Il Tempo. O la presa di un romanzo
storico, che pure si presenti come rilettura non fedele di eventi storici,
intreccio romanzato per l’appunto. O l’accessibilità di un sito internet.
Nessuno di questi prodotti editoriali può d’altra parte subire censure: sarebbe
pericoloso per la democrazia e si creerebbe il problema di assegnare ad un
organo una competenza suprema circa il diritto di diffondere idee.

Non è questo che si
chiede, né è questo che si deduce dalla lettura della motivazione dell’ultima
sentenza della Cassazione.

I signori
Bentivegna e Capponi non sono tutelati dalla legge in quanto partigiani. Non
sono esentati da ogni tipo di critica. Quello che viene condannato è un
tentativo subdolo, tanto più perché mascherato. Il secondo titolo, quello che
lascia intendere come a via Rasella siano stati massacrati dei civili, è
figlio di una visione distorta e inaccettabile: in una parola, illegittima.
Quella visione che vorrebbe sullo stesso piano resistenti e aguzzini,
Bentivegna e Priebke o Kappler. Che dimentica come i tedeschi fossero
occupanti, come gli Alleati e lo stesso legittimo governo italiano (cioè quello
di Badoglio, occorre ricordarlo a chi considera tale la RSI) li considerassero
nemici con tanto di dichiarazioni di belligeranza.

 

I giudici possono fare storia?
La storia si fa coi documenti, e coi documenti si fanno anche le sentenze.
Diversa può esserne la rilevanza (ciò che è accettabile per uno storico, può
non esserlo ai fini di una sentenza), e tuttavia un fondamento comune resiste:
il rispetto dei fatti. Una cosa ci sembra rimarcabile in quanto preoccupante:
che un giudice debba fare storia, ricordando che le parole vanno accordate ai
fatti.

Ai partigiani si
contestino pure le scelte, i toni aspri fanno parte del dibattito. La stessa
Cassazione sottolinea come un’espressione cruda o pungente o persino urticante
può essere funzionale all’esercizio di un
legittimo diritto di critica storica
. Diritto che si infrange
sull’inequivoco significato del termine “civili”.

Che dimostra come
il vero obiettivo era quello di addebitare ai gappisti l’eccidio delle Fosse
Ardeatine.

I giudici non
possono fare storia, ma neanche lasciarla fare al libero mercato editoriale in
assenza di tutele per chi venga coinvolto. E’ questo tipo di revisionismo che
non può essere tollerato, in una società democratica.

This entry was posted in politica. Bookmark the permalink.

One Response to Quella sentenza che fa storia (via Rasella, anni 65 dall’esplosione)

  1. opinionista says:

    se la storia ha bisogno di un tribunale per trovare legittimità allora non è più né storia né memoria.

    w carla capponi

Comments are closed.